Dopo la sentenza “Trattativa”, dettagli e reazioni

I dettagli sul perchè delle quattro assoluzioni e delle due condanne al processo d’Appello sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. I commenti tra accusa e difesa.

Gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, Mario MoriGiuseppe De Donno e Antonio Subranni, hanno sempre ammesso di avere intavolato un dialogo con i Ciancimino ma solo per catturare Totò Riina. Ebbene, i giudici li hanno assolti con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”. L’ex senatore Marcello Dell’Utri è stato invece riconosciuto estraneo al dialogo, e i giudici lo hanno assolto con la formula “per non avere commesso il fatto”. Lui, Dell’Utri, non sarebbe stato il tramite delle presunte minacce che la mafia avrebbe rivolto al governo Berlusconi. Il cognato di Riina, Leoluca Bagarella, avrebbe tentato di minacciare il governo Berlusconi, e i giudici hanno riqualificato il reato a lui contestato da minaccia e violenza a Corpo politico dello Stato a tentata minaccia, e hanno ridotto la condanna da 28 a 27 anni. Solo al medico mafioso di Riina, Antonino Cinà, è stata confermata la pena inflitta in primo grado, 12 anni di reclusione, per lo stesso reato previsto dall’articolo 338 del codice penale. Si è concluso così il processo ordinario di secondo grado nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta “trattativa” tra Stato e mafia all’epoca delle stragi del ’92 e del ’93, iniziato il 29 aprile del 2019. I giudici della Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino, a latere Vittorio Anania e sei componenti della Giuria popolare, si sono ritirati in Camera di Consiglio, nell’aula bunker del carcere “Pagliarelli” a Palermo, lunedì scorso 20 settembre. E hanno emesso sentenza sui sei imputati. Le motivazioni sono attese entro 90 giorni. In primo grado le contestazioni a carico dell’imputato Giovanni Brusca sono state dichiarate estinte per prescrizione grazie alle attenuanti e agli sconti di pena previsti per i collaboratori di giustizia. E allo stesso modo la prescrizione è intervenuta anche per il reato contestato a Massimo Ciancimino, il concorso esterno alla mafia, perché risalente a non oltre il gennaio 1993. Lo scorso 7 giugno, i sostituti Procuratore Generale, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, a conclusione della requisitoria, hanno invocato la conferma delle condanne inflitte, in primo grado, dopo 201 udienze, dalla Corte d’Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto, il 20 aprile del 2018. Ovvero: 28 anni di carcere a carico di Leoluca Bagarella, 12 anni ciascuno per Mario Mori, Antonio Subranni, Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, e 8 anni per Giuseppe De Donno. Secondo la tesi delle Procure inquirenti, tra il 1992 e il 1994, tra le stragi di Capaci, via D’Amelio, e gli attentati di Roma, Firenze e Milano, vi sarebbe stato il tentativo di interrompere tale escalation, la cosiddetta “strategia stragista” di Riina, tramite il dialogo con la mafia. E così Cosa Nostra avrebbe ricattato lo Stato con la complicità di uomini dello Stato. Dopo la lettura della sentenza d’Appello, il sostituto Procuratore Generale, Giuseppe Fici, ha commentato lapidario: “Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo”. L’avvocato Basilio Milio, difensore di Mario Mori, ha commentato: “E’ un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro. Abbiamo sentito sia il generale Mori che De Donno, e sono molto contenti. La sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico”. E l’avvocato Francesco Centonze, difensore insieme a Francesco Bertorotta e Tullio Padovani dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, commenta: “Siamo felici perchè il nostro assistito è stato dichiarato estraneo a questa imputazione, dopo 25 anni di processi, in relazione al periodo successivo al ’94. Questo è l’esito necessario alla luce delle carte processuali. Dell’Utri evidentemente non è stato l’anello di collegamento tra la mafia e la politica”. E la figlia di Antonio Subranni, Danila Subranni, giornalista, commenta: “Grazie alla conoscenza profonda che ho del rigore etico di mio padre, grazie alla famiglia, agli amici, ai miei colleghi, non ho mai avvertito la necessità di una riabilitazione del mio cognome, scandito sempre a chiare lettere, a voce ferma, in ogni ambito istituzionale in cui ho lavorato. Si riabilitino gli altri, se possono, si riabilitino coloro che negli anni, a processo in corso, a vario titolo e livello, hanno leso mio padre, la sua indiscutibile” appartenenza” allo Stato, colpendolo al cuore irrimediabilmente, ferendo la vita di mia madre, la mia e quella di mio fratello. Per quel che ci riguarda, chiederemo che ne rispondano a uno a uno, nei modi possibili che la Legge ci consentirà di perseguire. In base al principio di garanzia che vale per tutti: chi sbaglia, paga. Tutto questo nell’amara consapevolezza che la Giustizia, comunque, non ha prevalso. Perché in questi anni ha vinto l’uso ‘creativo’ della giustizia, che ha coinvolto un servitore dello Stato, la torsione della verità per fini ambigui, in ultimo per una vana gloria, peraltro mai raggiunta da coloro che sulla condanna di mio padre avevano investito”.

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